Amuse-bouche
Al fine di evitare problemi con intolleranze e preferenze alimentari, qui una piccola sintesi dei piatti della settimana: la cucina, tuttavia, consiglia di consumare il menù nella sua integrità.
Antipasto - Quanto vale una vittoria a San Marino | Dopo aver accumulato solo sconfitte per decenni, la nazionale di San Marino sembra poter invertire incredibilmente il suo percorso nelle competizioni internazionali. | Tempo di consumo: 8’
Primo Piatto - Il grande gigante gentile di Tandil | Ad un mese dal suo ritiro, un omaggio a Juan Martìn Del Potro, uno dei tennisti più amati da pubblico e colleghi e dei più odiati dalla sfortuna. | Tempo di consumo: 13’
Secondo Piatto - Ogni maledetto giovedì | Ho perso dodici partite consecutive a calcetto, e sono qui per raccontarlo. | Tempo di consumo: 7’
Dessert - Il casco storto | Come pensate sarebbe la vostra faccia se potessero fotografarvi nel mezzo della peggiore sconfitta della vostra vita? Primoz Roglic ha la sua personale risposta a questa domanda. | Tempo di consumo: 2’
Antipasto - Quanto vale una vittoria a San Marino
Vittoria e sconfitta sono i due esiti possibili di un evento sportivo (o due dei tre, nelle competizioni in cui il pareggio è contemplato), e tendenzialmente nel lungo periodo la loro frequenza si bilancia e tende all’equilibrio. Si tratta, in fondo, del motivo per cui le federazioni - a qualsiasi livello e per qualsiasi sport - si stratificano il più possibile in diverse serie e gironi: l’obiettivo è giocare sempre con giocatori o squadre di livello simile, di modo che né la vittoria né la sconfitta diventino un’abitudine per nessuno.
In alcuni casi, però, imporre questo sistema di tutela e meritocrazia è più difficile: è il caso dei tornei di qualificazione per le grandi manifestazioni per nazionali di calcio. Europei e Mondiali accettano solo un numero limitato di compagini (dal 2026, per esempio, questi ultimi passeranno da 32 squadre a 48), dunque è necessario svolgere dei tornei preliminari nei due anni precedenti per definire in base al merito chi potrà accedere al grande palcoscenico di un torneo intercontinentale.
Alle qualificazioni mondiali, ad esempio, devono avere accesso tutte le nazionali riconosciute dalla FIFA, ma allo stesso tempo è necessario un meccanismo di teste di serie che non favorisca, ad esempio, la qualificazione di una squadra molto più debole solo perché capitata in un girone clamorosamente più abbordabile. Ma cosa succede all’interno di questo sistema alle nazionali degli stati più piccoli e/o meno sviluppati del mondo?
Succede che vittoria e sconfitta smettono di essere due facce della stessa medaglia, diventando rispettivamente un miraggio e una tristissima routine. È il caso ad esempio di San Marino, che dal momento del suo approdo alle competizioni ufficiali nel 1990 ha sempre navigato gli ultimi posti dei ranking UEFA. D’altronde, pochissime altre nazionali possono contare su un bacino di popolazione così esiguo (circa 35.000 abitanti) dal quale selezionare i propri giocatori. Si tratta in particolare di Gibilterra e Lichtestein, che però storicamente hanno avuto programmazioni e risultati di livello superiore rispetto alla nazionale del Titano. Spesso, dunque, la nazionale sammarinese si è trovata davanti squadre dal livello infinitamente superiore (o anche solo, banalmente, costruite da giocatori professionisti e non da persone che il giorno dopo la partita dovranno presentarsi a gestire il proprio bar o lo studio da commercialista), incassando sconfitte sonore.
San Marino ha perso 198 delle 211 partite giocate nella sua storia tra tutte le competizioni, subendo 834 gol e segnandone 38. Per avere un’idea sommaria: in media segna un gol ogni cinque partite e mezzo, ma ne subisce quasi quattro a partita.
Fino a due anni fa, la sconfitta era quasi l’unico risultato conosciuto dalle pendici del Monte Titano. Dopo lo storico 1-0 casalingo contro il Lichtestesin, in un’amichevole del 2004, la sequenza di partite perse consecutivamente è durata 10 anni, fino all’insperato pareggio per 0-0 contro l’Estonia, sempre a Serravalle, nel 2014 - stavolta persino in una partita ufficiale, valida per la qualficazione ad Euro 2016.
Per oltre due decenni, la L è stata praticamente l’unico risultato contemplato dai sammarinesi e dai suoi pochi - folkloristici - tifosi, di cui solo una minima parte proveniente dal microstato ancorato alla Romagna. La Brigata Mai 1 Gioia, infatti, è attiva dal 2012, ideata da un reggiano come Massimo Visemoli, e al momento conta qualche decina di appassionati da diverse parti d’Italia e d’Europa, pronti però a recarsi a San Marino o in qualsiasi altro posto la loro nazionale adottiva sia chiamata a giocare, per portare un po’ di baccano ed un sostegno ad una formazione composta soprattutto da dilettanti.
Di fatti, degli ultimi convocati solo il centravanti Nicola Nanni può vantare un contratto da professionista, in Serie C con la Torres. Il resto della rosa naviga tra Serie D (tre giocatori), Eccellenza, Promozione e la massima serie del campionato locale. In termini pratici, nessuno di loro è un calciatore a tempo pieno, come sottolineato dall’attuale CT Roberto Cevoli in una recente intervista: «Questo per loro è il divertimento, nella vita normale lavorano, fanno lavori normalissimi e per venire a giocare, quando ci sono trasferte lunghe hanno permessi sportivi che lo Stato gli dà ma molte volte devono chiedere ferie».
Questa, però, non è l’unica stranezza che distingue le partite di San Marino da quelle che siamo abituati a vedere in televisione. Se tornare al proprio lavoro quotidiano normale dopo aver condiviso il campo con alcuni dei migliori giocatori del pianeta può sembrarvi in qualche modo disturbante, lo è altrettanto pensare di dover vivere un intera carriera sportiva con l’idea che probabilmente non si vincerà mai una partita. E allora nella Serenisima la gioia e la delusione, storicamente, hanno cambiato connotati. Si gioisce per delle cose che altrove sono normali: uno 0-0, una sconfitta di misura, una buona prestazione contro una grande nazionale. Un gol segnato. Un gol segnato si festeggia sempre, anche se arriva nel bel mezzo di una disfatta, come se vedere gonfiarsi per una volta l’altra rete invece della propria potesse dare a San Marino un nuovo boost di forza per continuare a scendere in campo pesantemente contro i pronostici, se non proprio da vittima sacrificale designata. Rimane nella storia della nazionale, per esempio, la rete segnata da Davide Gualtieri (ora proprietario di un negozio di informatica) nel novembre 1993 contro l’Inghilterra dopo appena 8.3 secondi: una rete che gli è valsa per 23 anni il record di gol più veloce nella storia delle competizioni internazionali. Per la cronaca, il vantaggio durò 20 minuti e la partita terminò 1-7.
Fin da ragazzo, sono stato affezionato alle vicende di San Marino, ed effettivamente non viene difficile prendere in simpatia la nazionale del Titano: basti guardare - oltre alla già citata Brigata Mai 1 Gioia - i diversi profili ai limiti del surreale che sul fu Twitter seguono costantemente i biancoazzurri nelle loro (dis)avventure. Se per natura una squadra che perde sempre genera tenerezza e compassione, in questo caso c’è qualcosa di diverso. In tutte le partite, la formazione della Repubblica dimostra una dignità ed un rispetto verso lo sport che a volte mancano su palcoscenici più importanti e patinati. A prescindere dall’avversario, dalla competizione e dal palcoscenico, l’atteggiamento dei sammarinesi è per certi versi encomiabile. Leggero, ma senza dare l’impressione di una scolaresca in gita; concentrato ed attento, ma senza il sentimento di ossessione verso la sconfitta che sarebbe comprensibile avere dopo una storia del genere. Un atteggiamento sintetizzato splendidamente da José Adolfo Hirsch, esterno argentino naturalizzato, con la frase che chiude uno splendido reportage di Gian Marco Porcellini per Ultimo Uomo di fine 2020: «Noi siamo qui: ci potete dare anche 10 gol, però prima ci dovete superare».
Nel 2024, però, a San Marino è cambiato tutto. In realtà, le cose hanno iniziato a girare diversamente dal 2018, quando la UEFA ha deciso di sostituire i balneari turni di amichevoli tra nazionali europee con una nuova competizione chiamata Nations League, strutturata con un sistema di gironi e categorie, di modo da concedere a tutte le squadre una competizione ufficiale contro compagini di livello simile.
Le prime uscite in Nations League non hanno portato particolari gioie allo stato del Titano, se non uno 0-0 in Lichtenstein a fine 2020. La sensazione di poter ritrovare la vittoria dopo quasi 20 anni, però, sembrava sempre più forte, e allora i vertici della federazione hanno provato ad assecondarla organizzando amichevoli esotiche contro squadre di altri continenti, ma provenienti da situazioni simili a quella di San Marino. Nel solo 2022 i ragazzi del CT Cevoli hanno affrontato Capo Verde (perdendo 2-0 in trasferta), la nazionale delle Seychelles (0-0 a Serravalle) e due volte Saint Lucia, in una doppia sfida fuori casa che però ha portato solo un pareggio ed una sconfitta. Stesso bilancio, nel 2024, nella doppia sfida a Serravalle contro Saint Kitts e Nevis (1-3 e 0-0). Un altro sussulto è arrivato a fine 2023, quando nelle qualificazioni all’Europeo i biancoazzurri hanno rischiato di strappare un risultato clamoroso tre volte in tre partite, contro Danimarca (1-2), Kazakistan (3-1) e Finlandia (1-2), pur uscendo sempre a bocca asciutta.
Negli scorsi mesi, però, la gioia tanto attesa è arrivata, esplodendo con un fragore superiore alla più rosee delle aspettative. Per l’edizione 2024 della Nations League, San Marino è stata sorteggiata nel gruppo 1 della lega D - ovviamente la più bassa. All’esordio casalingo, il 5 settembre, l’eroe è stato il classe 2005 Nicko Sensoli: approfittando di un’incertezza difensiva del Lichtenstein, il giovane talento della San Marino Academy ha segnato di rapina il gol più importante dell’ultimo ventennio per la sua nazionale: quello della prima vittoria, oltre 20 anni dopo l’ultima. Curiosamente, contro lo stesso avversario e con lo stesso risultato, ma con una gigantesca differenza: nel 2004 Andy Selva decise un’amichevole, nel 2024 Sensoli una partita ufficiale UEFA.
Ma la storia non finisce qui. Il 15 novembre, contro Gibilterra, un rigore del capitano Nicola Nanni a tempo praticamente scaduto ha regalato alla nazionale del Titano l’1-1 e, soprattutto, una trasferta a Vaduz in cui potersi giocare il primo posto nel girone e l’inaspettata promozione in lega C di Nations League.
Tre giorni dopo, San Marino ha giocato una partita semplicemente perfetta, battendo 3-1 il Lichtenstein con le reti di Lorenzo Lazzari, Nicola Nanni e Alessandro Golinucci. La garaè immediatamente finita nei libri di storia, e non solo per la promozione alla serie superiore ottenuta contro ogni pronostico: San Marino ha vinto la seconda gara ufficiale della sua storia a poco più di due mesi dalla prima, la prima in assoluto in trasferta, per la prima volta ha segnato più di un gol nella stessa partita e rimontato da una situazione di svantaggio.
Una notte da sogno, che fino a pochi anni fa sarebbe sembrata una sorta di allucinazione. Eppure, per certi versi, i festeggiamenti e le dichiarazioni post partita di giocatori e staff sono sembrati… moderati. Nelle interviste si parla di realizzazione di un progetto, di obiettivi, di lavoro quotidiano. Di decisioni prese nel passato che hanno i loro echi nel presente. La sensazione è che questo exploit non sia arrivato casualmente per San Marino, che oramai diversi anni fa ha deciso di non voler più aspettare una serie di fortunati episodi per poter festeggiare una vittoria ogni 20 anni, ma di provare a raggiungerla tramite investimenti, programmazione e cultura. Il livello del campionato interno cresce lentamente ma costantemente, e la nazionale continua a sfornare giovani talenti che ne aumentano la qualità abbassandone l’età media.
Personalmente, mi sarei aspettato delle reazioni di sfogo, quasi rabbiose, come a volersi togliere di dosso quella pesantissima etichetta di perdenti cronici che i sammarinesi hanno portato sui campi da calcio di tutta Europa per tre generazioni. Invece, quello che ho visto è stata la gioia di un gruppo di ragazzi capaci finalmente di far fruttare nel tabellino il lavoro di tutti i giorni sul campo d’allenamento. Ognuna delle due vittorie contro il Lichtestein, una volta realizzatasi sotto i miei occhi, mi era sembrata LA vittoria. Quella capace di portare San Marino all’apice delle sue possibilità, al tetto delle sue capacità. Invece, probabilmente, per gli stessi giocatori è stata solo una vittoria. Rara, inaspettata, sudata, storica, indelebile. Ma comunque una. Un passo di un percorso che di passi ne conta centinaia; sicuramente in passato sono tutti stati più difficili e scomodi di questo, ma nulla, effettivamente, vieta di pensare che il futuro possa essere fatto di una nuova normalità.
Solo il tempo ci dirà se questa svolta potrà portare davvero San Marino su un livello diverso da quello in cui ha navigato dal 1990 ad oggi. La netta sensazione, però, è che i sammarinesi non dovranno aspettare altri 20 anni per poter festeggiare di nuovo una vittoria.
Primo piatto - Il grande gigante gentile di Tandil
Per un periodo di quasi vent’anni, quattro giocatori hanno dominato il mondo del tennis. In principio fu Roger Federer: a vederlo sgretolare gli avversari quasi senza sudare si aveva la sensazione che giocasse in una dimensione parallela in cui era in grado di controllare spazio e tempo a suo piacimento. Un paio di anni dopo si è affacciato sul circuito Rafael Nadal, che invece sembrava giocare un tennis assolutamente reale e appartenente a questo mondo, ma esagerato e portato all’estremo in tutti i suoi aspetti. Novak Djokovic, invece, ha dovuto incassare sconfitte pesanti fino all’età adulta prima di diventare una specie di superuomo, un semi-dio inscalfibile e inattaccabile, nonché il più vincente tra tutti. Andy Murray, pur con un palmarés meno ricco, è stato l’unico capace di contendere agli altri lo scettro di numero uno (e addirittura a sfilarglielo) in un periodo di tempo prolungato, nonché l’unico in grado di vincere due ori olimpici consecutivi in singolare maschile.
Complessivamente, dal febbraio 2004 al febbraio 2022 (!) nessuno di diverso da loro quattro ha mai occupato la prima posizione del ranking ATP.
Ad un certo punto, questo quartetto sembrava destinato a doversi allargare, accogliendo un nuovo membro. Era il 2009, e Juan Martin Del Potro aveva appena trionfato, alla soglia dei ventun’anni, agli US Open, battendo prima Nadal in semifinale (6-2, 6-2, 6-2!) e poi Federer al quinto set di in un’anomala finale giocata di lunedì, a causa del maltempo.
Vedere giocare Del Potro, per certi versi, metteva paura. Negli anni in cui i sopracitati Fab Four cercavano di guadagnare margine l’uno sull’altro ampliando il proprio gioco, perfezionando il ventaglio di armi a disposizione e limando i difetti con una cura maniacale, all’improvviso aveva impattato con il circuito professionistico un tennista che sembrava poter vincere semplicemente tirando più forte degli altri. Una frase che suonerebbe come una battuta, se non fosse vera: DelPo, argentino di Tandil, riusciva a portare a spasso i suoi 97 chili per 198 centimetri sul campo con una leggerezza quasi innaturale, per poi sparare fucilate da qualsiasi lato del campo, con qualsiasi angolo, in qualsiasi momento. A vederlo caricare il dritto sembrava quasi di vedere un cavernicolo agitare una clava, sgraziato tanto quanto minaccioso. La racchetta saliva sopra l’altezza della testa, rimaneva ferma lì per un momento in cui sembrava congelare anche il mondo intorno, e poi scendeva impattando la pallina con una violenza tale da dare l’impressione di poterla far esplodere. E invece, nonostante lo schiocco terrificante, questa ricompariva in un amen dall’altra parte della rete, spesso a due dita dalla riga.
Gli avversari, contro l’argentino, mettevano in pratica quasi sempre lo schema standard consigliato contro avversari pesanti e potenti: muovere la palla, usare tante variazioni e cercare di farli colpire sempre in movimento per impedirgli di caricare i colpi. Spesso, però, erano sforzi inutili. Con un’elasticità che non si addiceva alla sua struttura, riusciva spesso a colpire in corsa o fuori equilibrio senza abbassare la qualità dei propri colpi. Questo rendeva difficile anche attaccarlo e provare a prendere la rete, sapendo che potevano piovere traccianti da un momento all’altro.
Un giocatore prettamente contemporaneo dunque, un picchiatore di quelli che fanno storcere il naso ai puristi della disciplina, sempre pronti a tirare fuori la tiritera su come l’evoluzione tecnologica di racchette e palline abbia reso più noioso il gioco e sul fatto che nessuno gioca più le volée. DelPo, ha però anche - per certi versi inaspettatamente - saputo sfumare il suo arsenale con diverse variazioni: nei momenti più fulgidi il suo tennis poteva contare su un discreto gioco di rete e su un fastidiosissimo back di rovescio da usare in manovra. Inoltre, la torre di Tandil sapeva portare sul campo un’intelligenza tattica sopraffina, grazie alla quale riusciva a muovere l’avversario e crearsi le condizioni perfette per liberare la violenza dei suoi colpi.
Questa descrizione, però, rappresenta per certi versi un Juan Martìn Del Potro in potenza, un giocatore che abbiamo visto a quel livello per pochissimi istanti, accecante come una cometa, prima che la sfortuna lo trascinasse sempre più lontano dalla gloria a cui sembrava destinato. Quando si parla di lui, infatti, si parla spesso di calvari, di sliding doors, di ipotesi e mondi paralleli, citando quella lunghissima sfilza di infortuni e operazioni chirurgiche che ne hanno rovinato la carriera e - a tendere - la vita.
Qualche avvisaglia era arrivata già prima della vittoria agli US Open citata in precedenza: nel 2007, agli albori della sua esperienza nel circuito, si ritira da sette partite per vari problemi muscolari. Nel 2008 è il turno della schiena, che lo costringe a dare forfait già dagli Australian Open a gennaio, rimanendo fuori due mesi, e poi di nuovo a ritirarsi contro Andy Murray agli Internazionali di Roma. A fine stagione, invece, uno strappo alla coscia rompe il sogno della finale di Coppa Davis, condizionandolo nel primo singolare contro Feliciano Lopez e impedendogli di disputare il secondo. La sua Argentina perderà 3-1 contro la Spagna.
Dopo la gioia del primo Slam, però, i problemi sembrano diventare più seri. Agli Australian Open 2010 fa crac il polso destro, che inizia a tormentarlo. Per due o tre mesi si cerca di applicare una terapia conservativa, ma l’operazione chirurgica è inevitabile. Durante il suo lungo stop malefiche voci di corridoio parlano alternativamente di depressione o di una sorta di appagamento per il trionfo di Flushing Meadows, che lo avrebbe spinto a smettere di allenarsi seriamente, se non addirittura del tentativo di nascondere un caso di doping. La verità è che la riabilitazione in seguito ai problemi al polso, per un tennista, è un progresso lento e delicato, che richiede molta pazienza, soprattutto per un’articolazione stimolata così tanto. A fine settembre rientra, perdendo al primo turno sia a Bangkok che a Tokyo, ma l’infortunio lo infastidisce ancora e lo porta a decide di chiudere anzitempo la sua stagione.
Dopo essere scivolato alla posizione 485 del ranking ATP, Del Potro torna a giocare con un minimo di continuità nel 2011, risalendo la china (pur continuando ad accusare problemi fisici qui e lì, come quello alla spalla che gli impedisce di partecipare agli ultimi tornei dell’anno) e tornando in finale di Coppa Davis, ancora contro la Spagna: perde entrambi i singolari contro David Ferrer e Rafa Nadal, e deve accontentarsi del secondo posto.
Nel 2012, dopo il rientro in top-10, si mette in mostra alle olimpiadi di Londra 2012. La sua semifinale contro Federer è una sfida epica, universalmente riconosciuta ancora oggi come uno dei migliori match di sempre tra quelli al meglio dei tre set. Nonostante la battaglia di oltre quattro ore termini con una sconfitta, DelPo è in grado di tornare in campo due giorni dopo per battere Djokovic e regalare all’Argentina quel bronzo che rappresenta la prima medaglia della sua storia nel tennis.
Dopo questo risultato iniziano le noie all’altro polso, il sinistro, che però sembrano sotto controllo: chiude il 2013 con quattro tornei vinti, il quinto posto nel ranking e una semifinale di Wimbledon a curriculum.
A questo punto il personaggio Del Potro ha già i connotati dell’eroe epico: rialzatosi dalla polvere per tornare alla gloria - e portarci il suo paese - nonostante una sequela di sfortune. Invece, l’estratto contro del suo debito con la sfortuna è solo alle prime righe. Ad inizio 2014 il dolore al polso si intensifica, e al torneo di Dubai si ritira in lacrime dopo aver perso il primo set contro la sconosciuta wild card indiana Somdev Devvarman. Il polso sinistro è quello del rovescio bimane che tante gioie gli ha regalato, permettendogli di navigare gli scambi e prenderne il controllo per poi chiuderli dalla parte del dritto. DelPo deve ancora ingoiare la pillola: stavolta torna da Richard Berger, il luminare che lo aveva operato anni prima, senza esitazioni. Si opera al polso per sanare i problemi ai legamenti, e accetta di sacrificare tutta la programmazione del 2014 per risolvere definitivamente la questione. Quello che non sa ancora, però, è che gli anni di stop diventeranno due, e le operazioni addirittura tre: prova a tornare in campo prima a gennaio e poi a marzo 2015, ma in entrambi i casi il dolore al polso è ancora presente e lo costringe a tornare sotto i ferri.
A Delray Beach, a febbraio 2016, Juan Martìn Del Potro si presenta come un fantasma. È scivolato alla posizione 1045 del ranking ATP, non gioca due tornei in fila da due anni, per tantissimi - anche addetti ai lavori - la sua carriera è oramai rovinata, lui sfilacciato tanto nel fisico quanto nell’animo. Di quel periodo di riabilitazione dirà: «Dopo ogni intervento dovevo stare in riposo assoluto; non potevo allenarmi, non potevo fare nulla. A casa cercavo di non guardare tennis in televisione, ma la mia testa finiva sempre lì, l’ansia mi divorava l’anima»
In questa fase la solidarietà verso la torre di Tandil diventa quasi pietà, compassione verso quello che poteva essere un campione leggendario e sta invece diventando sempre di più una cartella clinica ambulante. Lui tronca il rapporto con il suo allenatore storico Franco Davín ed è protagonista anche di qualche screzio a distanza, tramite il suo manager, con i giornalisti.
Alla fine, comunque, torna a giocare: la prima fase dell’anno è altalenante ma incoraggiante, e tra le diverse vittorie riesce a toglersi anche lo sfizio di eliminare Stan Wawrinka, numero 4 del mondo, al secondo turno di Wimbledon (perderà poi al terzo).
Il 2016 è però anche l’anno delle olimpiadi di Rio De Janeiro, e proprio nell’agosto brasiliano sembra quasi che il fato beffardo decida di dargli tregua, nonostante il perfido sorteggio del torneo olimpico: per lui, numero 145, c’è subito il numero 1 del mondo Novak Djokovic. Circondato dal tifo di uno spicchio di caldissimi argentini in trasferta, Del Potro tira fuori una delle vittorie più incredibili della sua carriera, ribaltando il pronostico 7-6, 7-6 dopo aver giocato una partita assolutamente alla pari col giocatore più forte del mondo in quel momento. Sull’inerzia di quella vittoria supera anche Joao Sousa, Taro Daniel, Roberto Bautista Agut e soprattuto Rafael Nadal, in una semifinale epica che mantiene tutt’oggi il suo fascino agonistico, vinta in rimonta al tie-break del terzo. In finale, disputata 3 su 5, non gli riesce il terzo miracolo del torneo, e deve cedere dopo oltre quattro ore ad Andy Murray, al secondo oro olimpico consecutivo dopo Londra 2012.
Nonostante il finale amaro, DelPo torna in Argentina da eroe, come se improvvisamente tutto il dolore degli anni precedenti gli si fosse scrollato di dosso, forte di una medaglia d’argento e soprattutto dell’aver ritrovato il livello di tennis necessario per competere con i grandissimi.
Il finale di stagione conferma le sensazioni, in un crescendo hollywoodiano: torna ai quarti di uno slam agli US Open, vince il primo torneo dopo le operazioni al polso nel 250 di Stoccolma, si prende la rivincita contro Murray battendolo sia in singolare che in doppio col fratello Jamie nelle semifinali di Coppa Davis, ma soprattutto supera sia Ivo Karlovic che Marin Cilic in finale, a Zagabria, per regalare all’Argentina la prima insalatiera della sua storia, confermando la mistica per cui la bandiera albiceleste sembra trasmutarlo nella miglior versione possibile di sé stesso - o quasi.
La crescita continua sia nel 2017 che nel 2018, e per diverso tempo sembra davvero che Del Potro possa tenere fede ad almeno una parte delle altissime aspettative che si avevano su di lui: fa prima semifinale agli US Open, poi si conferma campione a Stoccolma, torna in top 10 e sfiora addirittura le Finals 2017. E ancora, vince il suo primo masters 1000 ad Indian Wells, battendo in finale Roger Federer per 6-4, 6-7, 7-6 dopo avergli annullato 3 match point. Torna addirittura in finale a New York, nove anni dopo la vittoria che lo aveva lanciato nel tennis dei grandi, ma perde in tre set da Novak Djokovic.
Il lieto fine, però, non è parte della storia in questo caso. Sembra non essere ammesso, nemmeno alla fine di un percorso tempestato di ostacoli.
Nell’ottobre 2018, nel tentativo di recuperare una palla corta di Borna Coric agli ottavi di finale del Masters 1000 di Shangai, DelPo cade e si frattura la rotula del ginocchio destro. Sceglie di nuovo la terapia conservativa, e stavolta sembra andargli bene: nel 2019 torna a giocare quasi ai suoi livelli, vince e sembra moderatamente competitivo. E poi, al Queen’s, all’esordio della stagione su erba, è un’altra palla corta a rovinarlo. Esce da una voleé bassa di Denis Shapovalov, biondo canadese dal talento tanto fulgido quanto immaturo: Juan Martìn corre, si lancia, scivola e crolla ancora sul ginocchio destro. Riuscirà a giocare gli ultimi game, vincendo la partita, ma non il turno successivo. In realtà, non giocherà praticamente più a tennis da professionista.
La rotula è fratturata di nuovo, e stavolta serve un’operazione chirurgica. Sembra la soluzione, e invece è l’inizio della fine. Il colpo definitivo che abbatte il gigante buono di Tandil.
Affrontare la cronistoria dei suoi anni successivi è quasi doloroso, mi perdonerete se lo faccio sbrigativamente: in un mondo immerso nell’ansia del COVID, Del Potro si opera quattro volte allo stesso ginocchio, sempre affrontando convalescenza e riabilitazione, ma il dolore non passa. L’argentino confesserà poi che dalla prima operazione non è mai più riuscito neanche a salire le scale senza sentire dolore. Prova a tornare nel 2022, nel torneo casalingo di Buenos Aires, ma perde al primo turno dal connazionale Federico Delbonis. Tormentato dal dolore e sopraffatto dalle emozioni, piange a dirotto prima ancora che la partita finisca, nella plastica rappresentazione grafica dell’eroe finalmente, inesorabilmente sconfitto dal destino. In una scena carica di simbolismo, prima di uscire dal campo si toglie la sua iconica fascia per capelli, la poggia sopra la rete e la bacia, sancendo praticamente il suo ritiro. Ha 33 anni, ma non ha potuto giocare per gli ultimi tre.
Del Potro, come un triste personaggio di un romanzo russo, sembra destinato all’infelicità perenne, alla continua frustrazione del vedere la sua realizzazione ad un passo e non poterla mai raggiungere davvero. O ancora il protagonista di in una tragedia greca, in cui un dio perfido crea un essere umano perfetto per giocare a tennis, col cuore di un bambino e la tenacia di un marinaio, amato dal pubblico e dai colleghi, ma gode nel vederlo dimenarsi all’interno di un corpo che non vuole saperne di rimanere integro, sfaldandosi un pezzo dopo l’altro fino a costringerlo alla resa.
Il 26 novembre 2024, Juan Martin Del Potro ha pubblicato un lungo video sui suoi canali social. Indossa una maglia chiara su uno sfondo scuro. Ha un viso stanco, provato. Lo sguardo a metà tra il disilluso e il disperato. Parla con un interlocutore che sta dietro la macchina da presa.
Il video è lungo e straziante. Parla di altre quattro operazioni al ginocchio, di trattamenti e specialisti, tutto fatto in segreto per provare a tornare a giocare dopo l’annuncio del ritiro a Buenos Aires. Parla di 100 iniezioni tra gamba, anca e schiena. Di un dolore tale da tenerlo sveglio la notte ancora dopo anni, da impedirgli di salire una scala o fare una passeggiata. Delle partite a calcetto e a padel dei suoi amici nelle quali rimane fuori a fare video, seduto in panchina. Delle sei o otto pillole che prende ogni giorno: anti-infiammatorio, analgesico, gastroprotettore, ansiolitico. Dei tentativi fatti con i luminari di tutto il mondo, di altre iniezioni, anestesie, della speranza rinnovata dopo ogni operazione e svanita dopo due o tre mesi. Della sua naturale tenacia e di come il dolore la abbia piegata. Del travaglio emotivo, della sofferenza che lo tormenta. E della soluzione drastica che sta valutando, quella di impiantare una protesi che gli impedirebbe qualsiasi attività fisica ma quantomeno dovrebbe garantirgli di vivere senza dolore costante. Infine, parla della festa in programma: un’ultima esibizione contro Novak Djokovic, in cui spera di avere due o tre ore di pace per godersi per l’ultima volta un campo da tennis dall’interno.
Del Potro ha giocato il suo ultimo match il 2 dicembre 2024, nella cornice del Parque Roca di Buenos Aires, gremito di appassionati e personaggi famosi. In un‘atmosfera allegra, la sua gente ha tributato la dovuta riconoscenza al gigante di Tandil, che ha giocato tra due maxi-striscioni esposti dal pubblico con le frasi “gracias Delpo por nunca rindirte” (grazie Delpo per non esserti mai arreso) e”la torre de Tandil sigue luchando” (la torre di Tandil continua a lottare). C’è stato spazio per la commozione, per la musica, addirittura per un video-saluto di Roger Federer condito di parole al miele. In campo, ovviamente, Juan Martìn è sembrato l’imbolsita controfigura di sé stesso, costretto a giocare con un vistoso tutore sul ginocchio maledetto e praticamente impossibilitato a correre anche solo per un passo. Se l’atmosfera non fosse stata così rilassata, sarebbe sembrato quasi crudele vedere dall’altra parte Djokovic, uno dei più elettrici ed elastici giocatori della storia di questo sport. Alla fine, invece, l’addio al tennis di DelPo è dolce, per quanto possibile: ha vinto la partita, e a rete quando ha abbracciato il suo avversario si sono commossi entrambi, esattamente come dopo quel primo turno a Rio 2016. Quando il gigante di Tandil sembrava ancora più forte di tutti. Anche della sfortuna.
Secondo piatto - Il giovedì alle 21
L’aria attorno al campo è sempre particolarmente umida. Non che il resto di Milano sia più clemente, in media, ma dalla prima volta che ho messo piede al Crespi ho sempre avuto la sensazione che sopra alla struttura fosse stata calata una cappa di aria pesante capace di bagnare qualsiasi superficie con cui venga a contatto.
Il Crespi (Crespi Sport Village, per la nomenclatura ufficiale) è un agglomerato di campi sportivi a Lambrate, quartiere che fa da bastione della Zona B, a nord-est della città. Si tratta di una di quelle zone prettamente residenziali, sviluppatasi attorno alla stazione dei treni senza particolari punti di interesse: un paio di pub, un paio di pizzerie, qualche minimarket. Di quartieri così a Milano ce ne saranno una dozzina, tutti uguali e tutti diversi tanto quanto basta.
In questo caso, a differenziare questo dagli altri sono due costruzioni abbastanza vistose. Mettendosi in piedi all’incrocio tra via Valvassori Peroni e via Pascal si possono vedere entrambe: a sinistra Zero-Gravity, un capannone adibito a parco/palestra per tappeti elastici, parkour ed altre attività acrobatiche; a destra, oltre il recinto, il Crespi con i suoi campi da basket, pallavolo, tennis, calcio a 5 e persino rugby. Soprattutto, senza campi da padel.
Quando arrivo in campo col mio borsone grigio di solito ci sono già un paio di sagome buttate a bordo campo; teoricamente avremmo a disposizione uno spogliatoio, ma è dall’altra parte rispetto al campo e la nostra pigrizia ha sempre la meglio. Qualcuno arriva già cambiato e si siede solo per indossare gli scarpini, altri improvvisano uno strip tease in un angolo del tendone mentre la squadra femminile che gioca tutte le settimane prima di noi ultima la partitella di allenamento. Ovviamente, le due situazioni non si sono sempre incrociate senza impicci: una volta mi dovetti giustificare con il loro allenatore per il fatto di essere rimasto in mutande a bordo campo. Lui non sembrò convinto dalla mia spiegazione, che si rifaceva a principi di anatomia e di de-sessualizzazione del corpo nudo in determinati ambienti. Da quel momento mi chiedo se dopo le partite attenda che tutte le ragazze siano vestite per entrare in spogliatoio e fare il suo discorso.
Filippo di solito è sempre seduto a traccheggiare con le scarpe o ad abbozzare uno stretching svogliato. Ha una selezione di maglie che ne identificano bene la personalità: tra tutte, spiccano una rossa del Roma Club Malaga e una bianca con i dettagli iridescenti del Manchester City che si è aggiudicato gratis per essere stato l’unico coraggioso abbastanza da frugare in una busta di plastica abbandonata dentro uno spogliatoio in cui non eravamo mai stati.
È stato lui a farmi conoscere i ragazzi che fanno parte del gruppo che qui identificheremo come gruppodelcalcetto. Filippo si è trasferito a Milano un anno prima di me, dopo aver vissuto a Bologna nel mio stesso periodo. Probabilmente, dunque, aveva ben chiara la sensazione di rigetto che la città ti offre nel momento stesso in cui ci porti gli scatoloni. Essendo lui un cuore buono travestito da bruto menefreghista, ha pensato bene di velocizzare la mia integrazione fiondandomi in un gruppo whatsapp pieno di sconosciuti dopo neanche una settimana dal mio trasferimento. Fa ridere ripensarci, ma dopo 5 giorni in città avevo già conosciuto quella che sarebbe diventata la mia fidanzata e quelli che sarebbero diventati i miei amici più stretti e stabili.
All’inizio andare a giocare per me era un impegno non banale: vivevo a sud, lontano un quarto d’ora a piedi dalla metro verde, in quella terra di mezzo tra le scintillanti aule della Bocconi e i palazzi brulicanti della Barona. A Lambrate si giocava alle 22. Per me questo si traduceva in uscire di casa alle 21, cambiare due mezzi per un totale di 40 minuti di viaggio, camminarne altri 10, giocare per un’ora, farsi la doccia e ripetere il percorso all’indietro per rincasare a mezzanotte abbondamente passata, senza neanche la possibilità di fermarmi per la rituale birra post-partita. Lo facevo comunque volentieri: giocare mi piace, il livello medio era simile al mio, e finalmente avevo un appuntamento fisso ogni settimana come un maschio bianco etero che si rispetti.
Da quell’autunno del 2022 le cose sono cambiate. Io ora posso raggiungere il Crespi in dieci minuti di bicicletta (nel mezzo, ho abitato anche in una stranissima casa in Piazzale Piola da cui potevo arrivarci a piedi); tanti membri hanno salutato la compagnia e tanti altri nuovi sono arrivati, attorno alle partite si è creata una struttura di prenotazione posti e una procedura di raccolta minuziosa delle statistiche - dai gol segnati alla percentuale di vittorie sul totale delle partite giocate. Il fulcro, però, è rimasto lo stesso: si gioca il giovedì, si gioca al Crespi.
Da settembre 2024, al Crespi ho perso. Sempre. Ero presente quasi a tutti gli appuntamenti, ho giocato con compagni e avversari diversi, in posizioni diverse. Ho provato a cambiare l’abbigliamento, la dieta pre-partita (un giorno magari svelerò i segreti della ricetta P.P. sviluppata dal già citato Filippo), il riscaldamento. Ho cominciato ad intervallare le partite con il gruppodelcalcetto ad altre, giocate insieme a dei colleghi ed ex-tali, in cui il livello era leggermente più basso e dunque mi sembrava di poter incidere di più. Niente. Ho perso sempre, ho perso ovunque. Sono arrivato a dodici sconfitte consecutive. Per dodici volte ho preparato la borsa, scelto con cura una maglia dalla mia collezione, lavato le scarpe, sono arrivato al campo, mi sono scaldato, ho corso passato tirato contrastato parato. E per dodici volte ho perso.
Ovviamente le sconfitte sono arrivate nei modi più vari: all’ultimo minuto in partite combattute, o con grandissimo margine sfavorevole accumulato fin dai primi minuti di gioco; in rimonta dopo essere stato in vantaggio, mentre al contrario i tentativi di rimonta della mia squadra sono sempre falliti ad un passo dalla realizzazione.
Ad un certo punto, mi sembrava quasi di trovarmi a mio agio nella sconfitta. Si tratta di un tema che avevo già affrontato in terapia ai tempi: perdere in un certo senso ti esime da qualsiasi responsabilità postuma. Lo sconfitto fa tenerezza, a volte anche compassione. Quasi tutti solidarizzano con lui, anche se in realtà sono solo felici di non essere in lui. Le parole di conforto rivolte sui social o dai giornalisti agli sportivi in lacrime per aver sciupato l’occasione della vita suonano sempre stridenti, come se sotto nascondessero una sorta di sollievo: per fortuna che questo guaio ingestibile sta capitando a te e non a me. Vincere, invece, crea aspettative. Vincere ti mette sotto i riflettori, ti rende un simbolo, un’icona, anche nel microcosmo del calcetto del giovedì. Se vinci, tutti inconsciamente si aspetteranno che tu vinca di nuovo. E poi di nuovo, e poi di nuovo.
Nelle ultime partite in me non trovava spazio neanche la frustrazione. In genere la sentivo arrivare quando andavamo sotto di due o tre gol, in quel momento che spesso in una partita di calcetto rompe l’equilibrio e la orienta definitivamente verso una delle due squadre. Poi però, svaniva più rapidamente del solito, quasi come se il mio corpo fosse logorato dalla ripetizione dello stesso angosciante schema settimana dopo settimana, e mi limitavo a trascinarmi per il campo sconsolato aspettando che si spegnessero i fari per potermi buttare sotto la doccia.
Poi però, passati un paio di giorni, la voglia di riscatto aveva la meglio, e rieccomi a bramare un nuovo giovedì, un nuovo calcetto, una nuova occasione.
Qualche giorno fa, finalmente, ho vinto. A metà dicembre, nell’ultima partita utile per il 2024, la mia squadra ha largamente trionfato per 9-3 in una di quelle serate in cui è chiaro a tutti che qualcosa sia andato storto nella composizione delle squadre. Ho giocato bene, ma non più di tante altre volte: mi sono limitato a fare cose semplici per mettere in ritmo i miei compagni, a farmi trovare attento in difesa nella mia posizione e a qualche corsa qui e lì per provare a spegnere le velleità di rimonta avversarie. Alla mezz’ora era già chiaro che avremmo vinto, e per quanto sembri stupido dato il contesto si trattava di un momento che avevo immaginato per settimane. Però non stavo però provando una gioia particolare, quanto una strana empatia verso i miei avversari, nel vederli dialogare e rimproverarsi a vicenda provando a fare girare una partita nata storta. Dopo tutte quelle partite passate nei loro panni, mi sembrava in un certo senso di dover fare qualcosa per aiutarli. Ho respinto il pensiero e portato a termine la partita senza particolare pathos.
Una volta finita la partita ho provato, come sempre, a tirare cinque volte dal dischetto a metà tra la porta e il centrocampo per colpire la traversa. Si tratta di un piccolo rituale: di solito, un ⅕ mi fa tornare a casa soddisfatto, un ⅖ contento. Non avevo mai colpito più di due traverse. Quella sera ho colpito la traversa quattro volte su cinque tiri.
Mentre raccoglievo il borsone Federico, un avvocato di qualche anno più grande di me che da quando è arrivato sta cannibalizzando le nostre partite a suon di gol, mi ha abbracciato dicendomi che era sicuro che insieme avremmo spezzato la maledizione. Gli ho sorriso più per cortesia che per vero entusiasmo. Per le due settimane successive non ho avuto voglia di giocare a calcetto.
Dessert - Il casco storto
Nel 2020 Primož Roglič sembra al picco della sua carriera. Ex-saltatore con gli sci, nove anni prima ha ha interrotto la carriera sulla neve per dedicarsi al ciclismo, e da qualche anno sta raccogliendo ottimi risultati soprattutto nelle grandi corse a tappe, come la Vuelta vinta nel 2019.
In un anomalo Tour De France di inizio settembre, costretto a slittare sulcalendario per colpa della pandemia, Roglič è sempre in controllo sulle principali salite, con il suo personale stile che tutti gli appassionati di ciclismo impareranno a conoscere: calmo, controllato, regolare, preoccupato soprattutto di non andare fuori giri e pronto ad accelerare negli ultimi metri delle ascese per fare il vuoto sui rivali.
Roglič conquista la maglia gialla alla nona tappa e la difende fino alla ventesima da Tadej Pogačar, suo connazionale, che con l’incoscenza dei 22 anni - Roglič ne ha 9 di più - spunta quasi dal nulla, attaccando in molteplici occasioni e puntando alla prima grande vittoria della sua carriera.
La penultima tappa, il 19 settembre, è una cronometro individuale che si conclude sulla durissima salita de La Planche des Belles Filles. Entrambi gli sloveni sono specialisti delle prove contro il tempo, dunque il vantaggio di 53 secondi accumulato da Roglič in classifica generale sembra lasciare lui e la sua squadra relativamente tranquilli: difenderlo vorrebbe dire festeggiare la vittoria del Tour alla classica passerella sugli Champs-Élysées dell’indomani.
E invece, a Roglic va tutto storto: comincia ad accumulare ritardo in pianura, e all’inizio della salita paga già 36 secondi al connazionale. A metà ascesa sembra evidente a tutti che la classifica sta per essere ribaltata, e la storia riscritta. Mentre Pogačar vola, leggero come una piuma anche sulle pendenze in doppia cifra, a Roglič qualcuno sembra aver crudelmente tolto la grazia, la calma e la compostezza: sale storto, scattoso, con la bocca aperta e il casco malmesso sulla testa. Viene immortalato così in una foto che fa il giro del mondo, a fissare per sempre la caduta del re in giallo.
In cima alla salita, dove è posizionato l’arrivo, avrà accumulato un minuto e cinquantasei di ritardo, più che abbastanza per fargli clamorosamente perdere tappa, maglia e Tour.
Pogačar vincerà il Tour di nuovo nel 2021, per poi centrare una doppietta storica quest’anno, conquistando il Giro d’Italia e poi la Grand Boucle per la terza volta. Primož Roglič, invece, vincerà un Giro d’Italia nel 2023 e altre tre Vuelta a Espana, portando il suo record a 4. Ma non andrà mai più neanche vicino a vincere il Tour De France.